Epistola al Disgusto
Quando mi risveglio su una barca, in balia del vento e delle onde del mare ed una zaffata di petrolio mi avvolge.
Quando tocco il cielo con l’altalena e poi, giù, precipito.
Quando entro nel bagno di un autogrill sulla 24esima strada, fatto di gente che passa e nessuno che resta.
Quando sento un politico parlare per radio e non riconosco se è di destra o di sinistra.
Quando cerco l’equilibrio dopo aver vorticosamente ruotato su me stessa, stringendo le mani a pezzi di cuore.
In quell’istante, incontro te.
Nodi di alghe verdi, conchiglie rotte e sabbia. Desiderio di sciogliere, senza spezzarmi e paura che la corrente porti tutto via, non lasciando niente.
Perché ora so, che gli intrecci di foglie viscide occupano uno spazio e vogliono Attenzione. Come immaginare quello stesso spazio vuoto e la possibilità dell’Attenzione di andare dove vuole?
Dove vai, Attenzione?
Corre il tempo con la domanda ed eccoti di nuovo: elusivo Disgusto!
Metto nero su bianco la voglia e la paura di martellare il muro che ci separa e vederti un po’ più da vicino.
Trattengo i secondi in questa scrittura, per aprire la strada alla Possibilità.
Sei come una vecchia puttana spalmata sul marciapiede: quando ti incontro, la voce esita e l’andatura rallenta. Le domande soffocate dall’odore di sigaretta e cane bagnato. Deglutisco con fatica e lascio correre lo sguardo su quelle scarpe alte che mi starebbero benissimo.
Mio, caro, Disgusto, hai la forma di un fuoco d’artificio in una festa di paese: scoppi nella notte e scompari, non facendoti afferrare. Restano gli applausi e la musica di un’orchestra a cui non bada più nessuno. Così ti confondo facilmente: rabbia, noia, tristezza, felicità, non distinguo il colore che hai.
Fuggi, ma da cosa fuggi?
Immagino che abbia inteso quanto sia spiacevole la tua compagnia, ma odi sentirtelo dire. E giochiamo a nascondino tutto il giorno.
Dove sei, Disgusto? Dove sei? Ti nascondi nelle viscere, tra le serrature della gola e negli abbracci delle ciglia. Saltelli sui no della mia testa e annaspi sulla lingua asciutta. Ti lasci cullare dal mio respiro timido e sordo per finire schiacciato dalle labbra silenti. Ed io spalanco gli occhi, senza riuscire a vederti. Cado. Scivolo sui rigurgiti melmosi di un adolescente inerme e mi incazzo.
(Non c’è più rispetto! La gente è incivile, si stava meglio quando si stava peggio, più per meno meno, i negri ci rubano il lavoro, avrò spento le luci di casa? Chissà se piove, domani.)
…
..
.
Va bene, ho perso. P e r s o.
Le lettere si arrotolano, una dopo l’altra, lubrificate dal sudore acido. Sembrano far parte di un lungo filo di lana rossa, stretto tra le dita di una donna panciuta, che ritorna al gomitolo dopo esser stato l’orlo irregolare di una sciarpa frettolosa. E una vertigine mi assale. Non è facile, perdersi. E se poi non mi ritrovo più?
Rasserenante come un libro in una sera d’estate, camminare in giardini conosciuti, sbirciarne ogni angolo, strappare l’erba, osservare le foglie, toccare le rughe della corteccia d’ulivo, per poi ricominciare. E ancora, e ancora, fin quando la sicurezza che la terra esista non sia così reale da potermi addormentare. Dormire con l’angosciante conforto che tutto si sussegua come i raggi di una ruota di bicicletta.
Senza te, Disgusto, è come abitare in una di quelle sfere di vetro con dentro la neve, utili come sopramobile e a segnalarti che è il momento di spolverare.
Lì dentro, è sempre falsamente Natale. Vi regna un’atmosfera carica di dolorosa austerità, brama di esser afferrato per i piedi e speranza, che qualcuno o qualcosa ti scuota, ti dia movimento, o, perlomeno, ti faccia cadere sul parquet.
Perché ho scoperto che mi fa più paura la prevedibilità che il dubbio. E che se non ti rompi, si può passare tutta la vita ad essere un souvenir.
Così, mi sono lanciata…e ti ho scritto. Non aspettando qualcuno a raccogliere i cocci, se non me con te.
Narcisistica è la Certezza, la quale rende i passi pesanti e si circonda di specchi per elogiare la sua intelligenza. Coraggiose son le domande, che ti spingono ad andare lontano e viaggiare alla scoperta di luoghi mai visti. Domande che vivono nella voce di chi le fa e si diluiscono nell’aria notturna di un campo di orzo. Risposte che nascono dall’incontro con ciò che è fuori da te e che sono cosparse di miele e veleno.
Non posso e non voglio leccarle tutte.
Ora ti vedo, Disgusto, seduto sulla poltrona della saggezza, a guardarmi, con le braccia conserte e i piedi caffelatte sollevati sul tallone.
La tua potenzialità è l’intelletto:
conosci il mondo, anche se non l’hai mai assaggiato, e mi guidi nell’immenso oceano dell’ignoto. Fai parte di me, ma non sei me.
Grazie al tuo esistere in un preciso attimo di tempo, ho imparato a sentire fastidio a prima vista. E a fidarmi del mio fastidio: rifiuto carne putrescente, mastico con cura i peperoni gialli che fatico a digerire e che mi piacciono tanto, sputo gli avanzi delle sere lontane.
Con te, assaporo la commovente bellezza di danzare nell’infinita terra interiore dell’essere umano.
A cura della dott.ssa Marina Di Marco
Etimologia della parola Disgusto